martedì 22 marzo 2011
Voglia di volare con Kiki's delivery service!
Nel 1989 Miyazaki, dopo aver già realizzato 3 lungometraggi con dei temi abbastanza complessi, decide sotto consiglio di Toshio Suzuki, di adattare per lo schermo cinematografico la favola di Eiko Kadono: Majo no Takkyûbi, un testo che Miyazaki ha definito «…un buon esempio di letteratura per l’infanzia, che descrive efficacemente il divario fra l’autonomia e dipendenza presente nelle speranze e nello spirito delle ragazzine giapponesi di oggi.» Nonostante l’apprezzamento, il regista cambiò l’approccio al romanzo rendendolo più articolato e problematico, infatti, Kiki diviene l’icona del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, segnando il confronto con le responsabilità che ci accolgono lasciandoci sempre un po’ impreparati. Il regista torna ad affrontare temi strettamente legati alla società che lo circonda, volendo sottolineare il divario che esiste tra l’indipendenza economica, relativamente facile da conquistare in una società del benessere, e quella interiore, molto più ardua da raggiungere.
Kiki’s Delivery Service è un film sui dubbi e le incertezze che nascono nell’adolescenza, quando la personalità si definisce e i sogni iniziano a trasformarsi in progetti concreti per il futuro. Più che di conflitti esterni, il film racconta di una crescita interiore: la protagonista, infatti, si ritrova a doversi confrontare con individui e situazioni non familiari.
Il film ha come protagonista Kiki, una giovane streghetta, che col suo gatto nero Jiji si trasferisce in una nuova città per compiere il suo anno di apprendistato. Atterrata con la sua scopa di saggina a Koriko troverà ospitalità e lavoro da una coppia di fornai.Tra varie difficoltà farà molti incontri importanti, tra cui l’amico Tombo, che condivide con la streghetta la passione per il volo, e Ursula, una giovane pittrice che l’aiuterà in un momento di forte sconforto.
Il rito di passaggio non viene solamente intuito dalla trama del film, ma viene esplicitamente mostrato nelle sue tre fasi: separazione, messa a margine e riaggregazione. Fin dalle primissime immagini Miyazaki ci pone di fronte alla prima fase del rito proprio a sottolinearne l’importanza. La fase infantile di Kiki ,infatti, non viene affrontata, ma solo accennata attraverso il rapporto col padre. Un accenno malinconico che si esplica con il commento del padre, «Mi ricordi tanto tua madre alla tua età! Perchè non mi hai detto che saresti cresciuta così in fretta?», e con il gioco dell’aereoplanino, che Kiki chiede di fare a Okino, in ricordo di quando era piccola. Dopo le preparazioni Kiki si appresta alla separazione; come nei riti di passaggio delle civiltà non industrializzate, infatti, le streghe devono allontanarsi non solo dai parenti e dagli amici, ma anche dal luogo in cui sono cresciute, come a dare un taglio netto con la vita precedente. Kiki, cosi, inizia il suo viaggio che la porterà ad affrontare la parte più difficile di tutto il rito.
La seconda fase, quella della temporanea messa a margine, inizia nel momento in cui Kiki arriva nella città di Koriko .Fin da subito, la giovane streghetta si trova ad affrontare delle difficoltà, dagli incidenti stradali, all’incontro/scontro con la polizia, dalla difficoltà a trovare un posto per dormire, a quella economica. Sono prove a cui Kiki si deve sottoporre per superare il suo tirocinio. La ragazza deve entrare in territori altri ed affrontare la fatica e la solitudine, non solo,oltre ai problemi relativi alle responsabilità sociali Kiki si trova ad affrontare questioni esistenziali .La debolezza della sua determinazione e la leggerezza del suo atteggiamento è contrapposto alla prudenza del gatto Jiji e alla saggezza della panettiera Osono, che rappresentano per Kiki quei sacerdoti che ne riti di passaggio seguono e consigliano gli iniziandi. I primi problemi della streghetta vengono, infatti, risolti dal gatto e dalla panettiera: Osono troverà per lei sia la casa che il lavoro, mentre Jiji fa le veci di un grillo parlante che la conforta e la ammonisce. Arriva però il momento in cui questi due sacerdoti si allontanano, lasciando che Kiki affronti la fase più difficile con le sue sole forze. Diversamente dal racconto, Miyazaki sottopone la strega a una prova iniziatica: la perdita dei poteri . Questo cambiamento rispetto alla storia originale, è a mio parere necessario; Kiki fino a questo punto è una creatura liminare, sospesa tra infanzia ed età adulta, ed ha bisogno di perdere qualcosa per lei importante per spingerla a superare la soglia.La perdita della magia coincide con la scoperta di nuovi affetti e con la perdita di quelli vecchi: Kiki non riesce più a parlare con Jiji, ed inizia ad accettare l’amicizia con Tombo. Segue cosi una separazione dall’indipendenza sociale, raggiunta con il lavoro, per riuscire a ottenere quella psicologica. Kiki abbandona la città di Koriko, rifugiandosi nella casa nel bosco dell’amica Ursula, per affrontare la fase più difficile: la riconquista di se stessa. Sfogandosi con l’amica pittrice la streghetta scopre che anche Ursula ha attraversato un periodo di crisi creativa molto simile, nei sintomi e nelle conseguenze, all’improvvisa scomparsa dei suoi poteri. Ursula parlando a Kiki arriva ad accostare la pittura alla magia ed incita l’amica a coltivare un’inclinazione naturale che, come tutti i doni innati, ha bisogno di pratica e costanza per crescere e radicarsi. Per uscire dall’adolescenza e accedere alla maturità Kiki deve esplorare i limiti del suo talento. Anche la stessa Ursula è nel pieno di un rito di passaggio: la pittrice, infatti, si è isolata da tutto e da tutti per comprendere se stessa e la sua arte. A differenza di Kiki, però, lei è prossima al compimento; ha capito che il suo talento non è sufficiente senza la consapevolezza della propria identità personale. Una volta tornata in città Kiki ha imparato una lezione molto importante; non può fare affidamento su un potere trasmesso, sia esso magia o semplicemente il fatto di essere una persona, ma deve farlo suo, trovare la sua identità. L’aver solo capito questa verità, acquisita dolorosamente, le permette di riuscire a volare di nuovo, anche se goffamente,e salvare Tombo.
Miyazaki non ci fa vedere la fase finale del rito di passaggio, la riaggregazione, che avviene alla fine dell’anno di tirocinio di Kiki, preferisce metterci davanti alle continue conquiste che la streghetta acquista durante il suo rito di passaggio. La vediamo, infatti, integrata nella società non solo dal punto di vista lavorativo, ma anche da quello sociale. L’unica eccezione rimane il rapporto con il gatto Jiji. Kiki non parlerà più effettivamente con l’amico, del resto il rito comporta anche questo, una perdita effettiva, tuttavia comincerà a capire Jiji ugualmente senza che nessuno dei due venga meno alla sua specificità (anche se questo aspetto viene perso nella traduzione italiana).
“Con un tocco meravigliosamente leggero, il regista è riuscito a realizzare un apologo ottimista su un tema drammatico per incoraggiareil pubblico giovanile a vivere la responsabilità come una gioia.” A.Bencivenni
Bibliografia: Kiki consegne a domicilio di E.Kadono, Kappa Edizioni; The art of Kiki’s Delivery Service di H.Miyazaki, Tokuma; Hayao Miyazaki il dio dell’anime di A.Bencivenni, Le Mani; L’incanto del mondo. Il cinema di Hayao Miyazaki di A.Antonini, Il principe Costante; Volare non è la cosa più importante: Kiki’s delivery service di F.Filippi in e-Motion n°1 2002; Miyazaki e D’Alò: il passaggio dall’adolescenza all’età adulta di A.Gaglio in Tesi di laurea in storia e critica del cinema 2009/10.
Filmografia: Kiki consegne a domicilio (titolo internazionale Kiki’s Delivery Service), Giappone, 1989. Produttore: Hayao Miyazaki per Studio Ghibli, Toru Hara; Regia: Hayao Miyazaki; Soggetto: dal romanzo di E.Kadono Majo no Takkyûbi; Sceneggiatura: Hayao Miyazaki; Direzioni delle animazioni: Shinji Tsuka, Katsuya Kondo, Yoshifumi Kondo; Direzione Artistica: Hiroshi Ono, Katsuya Kondo; Montaggio: Takeshi Seyama; Musiche: Joe Hisashi; Durata: 102 min.; Distribuzione Giappone: Toey Company; Distribuzione Occidentale: Buena Vista Home Video.
giovedì 17 febbraio 2011
Mari Iyagi: il miracolo della Corea
Quando, nel 2002, al Festival International du Film D’Animation, il lungometraggio Mari Iyagi di Sung-Gang Lee, sbaragliando la concorrenza del Metropolis di Rintaro, ha fatto gridare alla nascita dell’animazione coreana, ha tratto in inganno i critici. Quest’industria cinematografica comincia, di fatto, negli anni Ottanta con un percorso molto particolare. Si può dire, infatti, che la Corea inizialmente non fosse interessata al mondo dei cartoni, ma solo ai soldi che questo faceva circolare. Nascono, così, i primi studi d’animazione basati sul servizio di sub-appalto. Questo sistema si basa sulla commissione di animazioni da parte di studi esterni che, per problemi di tempo o di denaro, non riescono a concludere il lavoro. Per l’animazione internazionale la Corea costituisce, dunque, la punta di diamante per i servizi di intercalazione soprattutto per il rapporto qualità-prezzo, ottenuto con forzati turni di lavoro e con stipendi molto bassi. Tutto questo è durato fino al 2000, quando questa lunga gavetta ha iniziato a dare i suoi frutti. Ecco perché con Mari Iyagi dobbiamo parlare di una ri-nascita del cinema d’animazione coreano.
Il film ha come protagonisti due amici d’infanzia,Nam-woo e Jun-ho, che si ritrovano dopo molti anni di separazione a Seul, quando ormai sono adulti. Durante le poche ore che passeranno insieme i due si ritroveranno a ricordare proprio l’ultima estate passata insieme, prima che Jun-ho si trasferisse.
Una delle caratteristiche che risalta sin da subito è il tema della “contrapposizione” che si riflette in tutti i livelli d’animazione compreso nella tecnica. Una contrapposizione continua tra città e campagna, presente e passato, realtà e fantasia, ma soprattutto tra infanzia ed età adulta. Nam-woo il protagonista, si ritrova proprio al passaggio tra queste due fasi d’età in un momento pieno di conflitti e insicurezze, alimentate da eventi che lo investono continuamente: la nonna malata, un nuovo padre da accettare e la partenza dell’unico amico fidato. Ed è proprio per far fronte a questa sua sensazione di vuoto e di dolore che crea un mondo fantastico e Mari, una figura misteriosa che nel film è sprovvista di vera natura. Un mondo visibilmente onirico e immaginario, ma che per “il ragazzo è qualcosa di comparabile alla religione. Nessuno intorno a lui crede che questi esseri esistano veramente, ma lui lo crede e, nella situazione in cui si trova, ha bisogno di crederlo. Lui ha fede[…]”. Dobbiamo però tener presente che tutto questo è un ricordo del Nam-woo adulto e che quindi il mondo immaginario non è visto con occhi innocenti (come Mei in Totoro), ma con una nostalgia tipica degli adulti che ricordano la loro infanzia. La nostalgia che nasce quando si ripensa a ciò che si è perso lungo la strada, affetti, oggetti, particolari che da bambini non avremmo notato. Ecco perché il linguaggio narrativo ci risulta in contrasto con il bambino che vediamo nello schermo, noi dobbiamo guardare con occhi adulti. Sarà poi la rottura della biglia, che conteneva il mondo di Mari, a sancire il passaggio definitivo all’età adulta, come a simboleggiare la sua crescita interiore e quindi la mancanza del bisogno di consolazione.
Da notare è il gatto Yeo che ricopre la figura di “tramite” tra mondo onirico e realtà. Un udito superfino, un olfatto prodigioso, una vista che funziona anche al buio, sono “strumenti” talmente sofisticati da permettere al gatto di “vedere” una realtà molto più ampia di quella che è alla nostra portata. Per questa ragione in molte culture ( e nel film) il gatto è sempre stato considerato un essere soprannaturale in grado di comunicare tra cielo e terra, tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra il mondo dei sogni e quello della realtà; un topos riprodotto molto spesso nel cinema.
Anche nella tecnica ritroviamo questa dualità; per tutto il film 2D e 3D si fondono abilmente creando un unico stile, grazie anche al lavoro di “appiattimento”, ottenuto con dei filtri, in post-produzione. L’assenza di bordi a ogni elemento e i colori tenui rendono l’immagine fluida, dandoci l’impressione che “la scena apparisse realistica e che contemporaneamente sembrasse uscita da un dipinto”.
Il film, uscito in Corea nel 2002, è stato presentato a molti festival; oltre al già citato Festival International du Film D’Animation in Francia possiamo ricordare il “Sitges Film Festival” in Spagna, il “Waterloo Festival for Animated Cinema” in Canada ed il “Bergen International Film Festival” in Norvegia ricevendo sempre critiche positive. Un film che racconta la nostalgia di un ragazzo, ma anche il sogno di un futuro per il cinema coreano.
Bibliografia: Corea: Il cartone è servito. di F.Filippi in e-Motion n°1 2002; Storia dell’animazione coreana di A.Greco in www.storiain.net ; My beautiful girl, Mari. La Corea alla conquista del mondo di G.Aicardi in e-Motion n°1 2002; intervista a Sung-Gang Lee ad Annecy di G.Russo; Recensione: My beautiful girl, Mari da Animation Italy in www.animeita.net.
Filmografia: Mari Iagy (Titolo internazionale My beautiful girl, Mari), Corea del Sud, 2001. Produzione: Siz Entertainment Co. Ltd, i Pictures Inc, Terasource Venture Capital Co. Ldt, Korean Film Commission; Regia: Sung-Gang Lee; Sceneggiatura: Soo-Jung Kang, Mi-Ae Seo, Sung-Gang Lee; Durata: 80 min.; Distribuzione: Cinema Service Co. Ltd; Musiche: Byeong-Woo Lee.
martedì 9 novembre 2010
Japan Anime Live: l'anime diventa realtà!
Negli ultimi anni il Giappone ha visto fiorire in Europa numerose manifestazioni legate alla propria cultura. Manga expo, convegni, mostre e gare cosplay invadono ogni anno le città europee. Felici di questo interesse verso la loro cultura e verso l’universo manga/anime i creatori degli anime-live hanno deciso di creare il primo evento-live ufficiale made in Japan e di portarlo in tour nelle città europee più importanti. Finalmente il famoso show manga/anime nipponico esce dai suoi confini d’origine! Ma che cos’è di preciso il Japan Anime Live? Nel periodico Ochacaffè (che viene consegnato all’entrata dello spettacolo dopo aver comprato un gadget) troviamo scritto “Chi ha avuto l’occasione di vederlo ne è rimasto entusiasta, chi ne ha solo sentito parlare o ha visto le informazioni che stanno invadendo il web è pieno di curiosità, ma fa fatica a capire appieno di cosa si tratti. E’ un concerto? Una performance teatrale? Cosplay? Musical? Spettacolo di luci e proiezioni o attori veri? [… ] Il Japan Anime Live è tutto questo e molto di più!”. In effetti questo spettacolo mozzafiato di due ore e mezzo racchiude tutto questo combinandolo ad animazione esclusive, azione ,recitazione e musica dal vivo orchestrata dal famoso dj j-rock Daisuke Asakura e dal cantante ryoseirui (cioè un cantante capace a raggiungere sia le tonalità maschili che quelle femminili) Piko.
Lo spettacolo a cui ho partecipato è quello del 6 Novembre al Mediolanum Forum di Milano. L’evento porta in scena 5 dei più famosi cartoni animati giapponesi: Full Metal Alchemist Brotherhood, Bleach, One piece, Gundam series e Naruto Shippuden. Lo spettacolo ha inizio alle 21.00, ma nell’attesa che cominci, l’Associazione Culturale di Amicizia Italia Giappone Ochacaffè intrattiene gli spettatori con una sfilata cosplay. Accompagnati dalle note delle opening di Naruto e di Death note 12 magnifici cosplay di videogiochi e anime , selezionati tra molti iscritti, hanno sfilato sul palco facendosi fotografare da fan e reporter italiani e giapponesi. Tra questi voglio ricordare Giancarlo Di P., vincitore mondiale cosplay, che ha sfilato per la serie Zelda nel cosplay di Jenko-Ganondorf, Elena D’A. che ha sfilato per il videogioco Shin Magami Tensei: Persona 3 nei panni di Shadowings: Juno e Daniela M. che ha interpretato The Devil dall’art book “Sign that Glitters” dell’artista giapponese Sakizou; a mio parere erano i più belli!
Dopo la sfilata e il countdown, vengono proiettate sul grande schermo ad alta definizione (10 x 6 metri) le interviste dei creatori degli anime di Full Metal Alchemist Brotherhood, Bleach e One piece, nelle quali gli autori spiegano quali scene delle serie saranno interpretate e perché sono state scelte proprio quelle. Ed ecco che lo spettacolo ha inizio! Sullo schermo appaiono stampe antiche giapponesi, immagini di Tokyo ed infine il monte Fuji, il simbolo del Giappone, dal quale fuoriescono le immagini delle serie che saranno interpretate. Queste si susseguono come a “pescare” quella che verrà interpretata e fra tutte la prima ad uscire è Full Metal Alchemist. La voce di Piko accompagnata dalla band intona una delle opening della serie e alle sue spalle sullo schermo vengono proiettate le parole (in alfabeto latino) in modo che gli spettatori possano cantare con lui. Intervallate dalle opening, sul palco vengono proiettate 4 scene tratte dalla serie, devo dire ben scelte, anche se molte di queste hanno “spoilerato “ la trama per chi, come me, ancora non aveva finito di vederla! Mentre le immagini scorrevano, venivano magistralmente doppiate dal vivo dai doppiatori ufficiali italiani, cha hanno reso il tutto ancora più sorprendente. Questo modo di mettere in scena una serie è molto particolare perché non solo riesce a dare un’idea di quanto lavoro ci sia dietro le quinte, ma anche perché da l’impressione di vivere personalmente la scena, lo spettatore viene catapultato nell’anime. Grazie a questa magia gli spettatori in platea hanno trattenuto il fiato durante i combattimenti e si sono imbarazzati con Ed mentre confessava, a suo modo, l’amore che prova per Winri. Alla fine della messa in scena di FMA-Brotherhood il dj Daisuke ha mixato Melissa l’opening più bella della serie per concludere il primo capitolo dello spettacolo. Di nuovo la pesca sul grande schermo e stavolta il cartone sorteggiato è Bleach! Come già anticipato nelle interviste, in questo nuovo capitolo verrà interpretata la scena del salvataggio di Rukia, la scelta cade proprio su questa perché l’autore vuole che gli spettatori pongano l’attenzione sul punto focale del manga: la protezione di qualcuno che ci è caro e il suo salvataggio in caso di pericolo. Non a caso il nome Ichigo a seconda di come scritto significa “colui che protegge”. Stavolta sul palco non ci saranno doppiatori, ma veri e propri attori giapponesi che interpreteranno la scena in lingua originale (ovviamente i sottotitoli sono proiettati sullo schermo!). La rappresentazione rende molto l’idea di come i giapponesi interpretino il teatro. A differenza del nostro teatro nel loro non c’è una prevalenza del dialogo. I gesti, i movimenti, la danza (o,in questo caso, combattimenti) il canto e le battute vengono equilibrate ed hanno tutte la medesima importanza. Inoltre hanno la caratteristica di rendere la rappresentazione veramente emotiva. Ma torniamo allo spettacolo. Sul palco vengono rappresentati in forma molto ridotta i primi 10 numeri del manga, prendendo in considerazione i personaggi di Rukia Kuchiki, Ichigo Kurosaki, Abarai Renji, Kuchiki Byakuya. Una bellissima interpretazione che ha fatto scappare qualche risata al pubblico quando Renji ha cambiato la spada per simulare lo shikai di Zabimaru! A questo punto entra di nuovo in scena Daisuke che dopo aver mixato opening di Bleach con Bon Voyage di One piece lascia il palco alla terza serie animata: One piece. Inaspettatamente Il pubblico si trova ad osservare sullo schermo i veri doppiatori giapponesi vestiti dal personaggio che interpretano. Con una simpatica scenetta, vediamo il loro lavoro durante il doppiaggio dell’incontro di Orso Bartolomew con i membri della ciurma nell’arcipelago di Sabaody . Nell’intervista iniziale l’autore Eiichiro Oda ci spiega l’importanza del doppiaggio. In effetti è inutile avere un cartone animato ben realizzato se le voci non riescono a rendere la caratterizzazione dei personaggi, l’attore deve riuscire a rendere l’atmosfera giusta. Ecco perché per One piece viene scelto una scena di simulazione doppiaggio e non un’interpretazione come per Bleach. Ed ecco che il Japan Anime Live ci stupisce ancora! Dopo la canzone Mugiwara no Family,del fumo sul palco introduce dei pupazzi molto “kawaii” raffiguranti i personaggi della ciurma, che hanno sfilato tra il pubblico! Dopo di che è la volta dei doppiatori italiani, che come in FMA, doppiano in diretta alcuni momenti della serie. Stavolta però lo spettacolo non è stato così magico. Alle immagini mancava totalmente l’audio e si sentivano solo le voci degli attori, in questo modo era molto difficile calarsi nella scena. Inoltre c’è da sottolineare che Rubber è stato chiamato per tutto il tempo Monkey D Luffy. Questo ci fa supporre che i doppiatori italiani (o chi per essi) non si siano sentiti di far vedere quanto in Italia viene censurata la serie! Con One piece finisce la prima parte di spettacolo e viene data una pausa di 11 minuti ( i giapponesi sono maniacali per la precisione!).
Il secondo tempo si apre con le interviste degli autori sugli ultimi due cartoni animati Gundam series e Naruto Shippuden, nei quali si spiega, come nella prima parte , quali scene delle serie saranno interpretate e perché sono state scelte. Lo spettacolo riprende e con Gundam series arriviamo al culmine del climax : stiamo parlando, ovviamente, del mito dell’animazione giapponese. Attraverso un excursus temporale diretto magistralmente, ecco che appare “l’intera evoluzione del «mobilsuit» creato da Yoshiyuki Tomino”, “punteggiata dalle migliori canzoni originali e accompagnata visivamente dalle immagini delle varie serie che si sono susseguite dal 1979 a oggi. E’ con Gundam che Il Japan Anime Live è riuscito a farci capire come queste grandi opere del passato riescano ad essere sempre attuali. Il cult dell’animazione lascia poi il posto agli eroi contemporanei: è il momento di Naruto Shippuden. E a questo punto non esiste più distanza tra palco e platea. Gli spettatori iniziano a cantare con Piko le opening e si lasciano trasportare . La magia dei taiko (tamburi giapponesi) suonati dai musicisti in sincronia, come se seguissero una coreografia, introducono il primo combattimento tra Naruto e i ninja nemici. Gli attori mettono in scena l’incontro del team Kakashi con Sasuke, nel nascondiglio di Orochimaru. La rappresentazione è davvero realizzata con maestria, persino le tecniche come il chidori e il rasengan sembrano reali! Per non parlare del kage bunshin no jutsu che ha fatto apparire sul palco orde di Naruto! Dopo le opening Go e Blue bird cantate a squarciagola da tutto il Mediolanum Forum lo spettacolo è giunto al termine.
Il Japan Anime Live è come Disneyland per i fan più accaniti; è un modo per vivere con i nostri eroi avventure, facendo parte di quel mondo d’animazione che tutti noi sogniamo.
giovedì 4 novembre 2010
L'educazione all'audiovisivo con Wallace & Gromit
Se parliamo di animazione con la plastilina non possiamo non parlare della Aardman animation e della sua claymation. La storia di questo studio ebbe inizio nel 1972 con la collaborazione di Peter Lord e David Sproxton. I due compagni di scuola crearono il personaggio Aardman, un eroe inetto, per un programma della BBC, utilizzando una piccola telecamera da 16 mm. Il progetto piacque e riscosse molto successo, così ad Aardman vennero affiancati altri personaggi che divertirono bambini e adulti di tutto il mondo. Nel 1982 i creatori sperimentarono una tecnica innovativa: la registrazione di conversazioni reali come base dell’animazione, affiancandola alla celebre claymation. Questa tecnica consiste nel creare personaggi e sfondi con sostanze malleabili (in questo caso plastilina) e nell’immortalare singole fasi di movimento. Una volta riprodotta la sequenza di immagini fisse (ad una frequenza di almeno 10-12 frame per secondo) si ottiene l'illusione che gli oggetti di plastilina siano in movimento. Il salto di qualità avvenne nel 1985 quando Nick Park si unì a Lord e Sproxton e rese i suoi personaggi, Wallace & Gromit, la punta di diamante dell’Aardman. In meno di 30 anni la Aardman animation divenne lo studio di animazione in plastilina più importante al mondo. I suoi cortometraggi sono “pieni di idee brillanti, con una tecnica impeccabile e un senso magistrale della drammaturgia cinematografica”, senza dimenticare l’umorismo inglese di cui sono permeati. Grazie a Park e ai suoi personaggi nacque una collaborazione con la Dreamworks, venne così concordata la realizzazione di 5 lungometraggi. Nel 2000 esce al cinema il primo “Galline in fuga”; a seguire nel 2006 “Wallace & Gromit: la maledizione del coniglio mannaro” e per ultimo nel 2007 “Giù per il tubo”. Nel 2007, però, la Aardman attraversò un periodo molto difficile. Tempo prima un incendio aveva distrutto l’archivio degli studi, dove si trovava quasi tutto il materiale: scenografie, modelli e articoli di scena. Come se questo non bastasse la Dreamworks ruppe la collaborazione perché i lungometraggi riscuotevano successo nella critica, ma non accadeva lo stesso con il consenso del pubblico. Fortunatamente lo studio riuscì a riprendersi grazie al successo delle serie televisive e ai cortometraggi, tornando al suo antico splendore.
La Ardaman, pur avendo prodotto magnifici corti e serie umoristiche, viene associata, nell’immaginario collettivo, a Wallace & Gromit. “Wallace & Gromit: la maledizione del coniglio mannaro” esce nelle sale cinematografiche il 3 Marzo 2006 ed incassa 137 milioni di dollari. In poco tempo il film conquista ben 2 premi cinematografici come miglior film d’animazione: il premio Oscar e il Kansas City Film Critics Circle Award. Nel film la famosa coppia di inventori è alle prese con una macchina cattura conigli. Wallace e Gromit , infatti, sono stati assunti dagli abitanti della città per difendere i loro giardini dall’attacco dei roditori al fine di salvaguardare le verdure che dovranno competere nella fiera dell’ortaggio gigante. Nonostante questa precauzione, gli orti del vicinato vengono devastati da una bestia misteriosa contro la quale le misure di sicurezza non sono efficaci. I due dovranno, quindi, riuscire a catturare la bestia e salvare i cittadini, gli orti, ma soprattutto la gara dell’ortaggio gigante.
Tecnicamente la pellicola, realizzata in 5 anni, è perfetta e ci stupisce. La plastilina è utilizzata con maestria, tanto da raggiungere livelli di fluidità nei movimenti e di efficace resa cromatica fino ad arrivare alla completa mimesi con il cinema dal vero. Non solo. Anche la fotografia, il montaggio e il registro drammatico riescono ad eguagliare la cinematografia classica. Il punto debole è la sceneggiatura: il ritmo del film risulta troppo altalenante, ci sono episodi indimenticabili e pieni di gag, alternati a momenti piatti e lenti. Si può ipotizzare che la ragione di questo sia individuabile nell’abitudine degli autori della Aardman ai cortometraggi, quindi a condensare “il succo” della storia in pochi minuti. La caratterizzazione e lo studio dei personaggi risulta impari se si confrontano i protagonisti con i personaggi secondari. Wallace e Gromit sono, di fatto, più studiati: hanno una storia passata e sono conosciuti dal pubblico grazie alle serie animate. Wallace è un inventore inglese un po’ sbadato, gentile con una passione per il formaggio, Gromit è il suo inseparabile cane che pur non parlando, riesce sempre a farsi capire e sorveglia l’amico pasticcione. Tra i due c’è un rapporto di amicizia non di sudditanza: “Gromit -infatti- tratta Wallace con la fedeltà propria di un cane, ma non permette mai al suo padrone di avere il controllo su ciò che gestiscono insieme, ovvero l’agenzia caritatevole di disinfestazione “anti-pesto” contro i conigli mangia-ortaggi. E’ il cane che escogita le strategie migliori per il loro lavoro ed è sempre lui che risolve tutte le situazioni imbarazzanti che si creano lungo il corso della storia”. I personaggi secondari a confronto risultano essere approssimativi e stereotipati, alcuni addirittura sembrano essere inseriti solo per creare il moto d’azione. Ne è un esempio la figura di Lady Tottington, che appare nel cartone solo per avere una figura femminile da salvare, espediente necessario per un film horror.
E’ pur vero che se dobbiamo trovare una nota positiva al film, oltre alla parte tecnica, la troviamo nel celato intento di dare un’educazione all’audiovisivo. Celato per 2 motivi: primo in quanto può essere individuato solo da chi ha una certa cultura nel’ambito cinematografico, in secondo luogo perché Nick Park nella conferenza stampa del febbraio 2006 confessa che il film non ha intenti didattici, per lui l’importante è divertire il pubblico. Il film si presenta come un omaggio al cinema degli orrori degli ultimi cinquant’anni. Non possiamo non scorgere il riferimento al film Un lupo mannaro americano a Londra (John Landis, 1981) nella trasformazione di Wallace in coniglio mannaro; ne non vedere la citazione di King Kong (M.C. Cooper e E.b. Schoedsack, 1933) nella scena in cui il coniglio mannaro rapisce Lady Tottington e la porta con sé in cima alla magione dei Tottington (cf. l'Empire State Building). Ma ci sono riferimenti e citazioni a molti altri film come L’incredibile Hulk (Ang Lee, 2003), Tremors (Ron Underwood, 1990),Il dottor Mabuse (Fritz Lang, 1922), Metropolis (Fritz Lang, 1927),e Jurassic park (Steven Spielberg, 1993). In questo modo guardando il lungometraggio di Wallace e Gromit è come se ripercorressimo la storia del cinema horror, oltre ad abituarci a vedere al di la delle immagini.
Bibliografia: www.animeclik.it,www.cartonionline.com, www.wikipedia.it, www.mymovies.it, www.tvblog.it, Introduzione all'intelligenza Maurizio di lucchio.
Filmografia: Wallace e Gromit: la maledizione del conoglio mannaro, UK, 2006. Produzione: Aardman Animation, DreamWorks Pictures; Regia: Nick Park, Steve Box; Soggetto: Nick Park, Steve Box, Bob Baker; Durata: 85 min; Distribizione: United International Pictures (UIP).
venerdì 10 settembre 2010
Il Meisaku e Flo, la piccola Robinson: i cartoni diventano educativi
L’animazione in Giappone ha da sempre avuto molta importanza, tanto da avere una produzione di gran lunga maggiore rispetto al cinema tradizionale, esprimendosi non solo attraverso il mercato cinematografico, ma anche con quello televisivo e home-video. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se già negli anni ’70 si sia presa coscienza del potere comunicativo di questo genere: l’animazione, infatti, attraverso le sue componenti ( immagini-movimento e suoni) e la sua duttilità è in grado di trattare ogni genere d’argomento in modo universale. La Nippon Animation, nel 1975, decide di sfruttare al massimo queste capacità utilizzando i cartoni animati con intento educativo e producendo il World Masterpiece Teatre (Sekai meisaku gekijō o più brevemente Meisaku "Teatro dei capolavori mondiali"). Il programma, trasmesso la domenica sera, contiene serie ispirate a romanzi per ragazzi, nello specifico di origine occidentale: il cartone animato diventava lo strumento perfetto per poter insegnare e invogliare i ragazzi ad avvicinarsi alla letteratura, divertendosi. I cartoni animati prodotti per questo progetto, che dura fino al 1997 concludendosi con Dolce Remì, erano di un’eccellente livello. Probabilmente questa perfezione è dovuta al massimo rispetto che i giapponesi hanno verso l’opera letteraria, infatti, ogni romanzo veniva studiato fin nei più piccoli particolari per poter rendere la serie totalmente fedele all’opera. Si studiavano le scenografie, la vita quotidiana, l’ambiente in cui si svolgeva l’azione, i vestiti dell’epoca, il contesto socio-culturale e la psicologia di ogni personaggio. Tutto questo contribuisce ad allargare la fascia di pubblico, le serie non attirano solo i bambini, ma anche gli adulti che si ritrovano ad apprezzare la trasposizione delle opere letterarie in anime. Il World Masterpiece Teatre arriva in Italia tra i primi anni ’80 e la fine degli anni ’90 , trasmesso inizialmente dalla Rai in seguito da Mediaset, ha subito un enorme successo. Anche oggi queste serie vengono continuamente riproposte nel nostro palinsesto televisivo proprio perche i programmatori italiani accettano e comprendono meglio i temi trattati, rispetto agli altri anime, limitandone così la censura. Tra i cartoni animati appartenente a quel programma possiamo ricordare Heidi, Anna dai capelli rossi, La sui monti con Annette, Pollyanna, Una per tutte tutte per una, Il libro della giungla, L’ape Maja e Flo la piccola Robinson. Tra tutte queste serie quella più educativa era senza dubbio Flo, la piccola Robinson, questo perché il romanzo da cui è tratta Swiss Family Robinson, del 1812 di Johann Wyss , era a sua volta uno strumento educativo : ogni vicenda dei naufraghi era, infatti, permeata da una serie di lezioni di storia, geografia, fisica e storia naturale. Il cartone viene mandato in onda, per la prima volta, in Giappone nel 1981 dalla Fuji tv ed arriva in Italia solo un anno più tardi su Rete 4.
Le prime tre puntate hanno la funzione di prologo., infatti, oltre a introdurre la storia vengono presentati i personaggi, le loro abitudini e il loro carattere. Da queste prime puntate (La lettera, La partenza, Flo ci ripensa) sappiamo che la famiglia Robinson, composta dal padre Ernest, la madre Anna e da tre figli Franz ,Flo e Jack, vive a Berna. Il capofamiglia è un medico molto gentile che si offre di curare non solo i pazienti ricchi, ma anche quelli più poveri, ed è proprio per questa sua indole che sente il bisogno di andare dove ci sia realmente bisogno della sua competenza. L’occasione gli si presenta quando riceve una lettera dal dott. Eliot, un amico che vive in Australia, che lo invita a recarsi in quella terra lontana per esercitare là la sua professione. Dopo un consulto con la famiglia, Ernest decide di accettare e di partire immediatamente per l'Australia con la famiglia al seguito ed è durante questo viaggio che avviene il naufragio. A causa di una forte tempesta la nave su cui erano imbarcati i Robinson si scontra con un enorme scoglio che ne provoca l’affondamento. I passeggeri riescono a salire sulle scialuppe di salvataggio,ma la famiglia svizzera non vi trova posto e rimane sulla nave. Da questo momento in poi, inizieranno mille sfide da affrontare: dalla costruzione di una zattera, a procurarsi il cibo, ma dovranno, anche, difendersi dagli animali feroci e continuare a vivere una vita, il più possibile, normale.
Il personaggio chiave per l’intento educativo dell’opera è, senza dubbio, il padre Ernest. La sua figura incarna la coppia sempai-kōhai, tipica della società giapponese, dove il primo termine indica"colui che ha iniziato prima", ed il secondo "colui che ha iniziato dopo". Il padre diviene,quindi, maestro della sua famiglia e grazie al suo ingegno e al suo sapere riesce a costruire una casa e una zattera, ma anche a produrre tutto il necessario per la sussistenza, come il sale e lo zucchero. In questo modo il giovane spettatore avrà lezioni di vita mai pedanti o fuori luogo e impara, assieme ai protagonisti, come fronteggiare le difficoltà. Il regista Yoshio Kuroda decide di dedicare interi episodi alle scoperte e alle invenzioni del padre, questo perché l’attenzione dello spettatore deve concentrarsi proprio sulla spiegazione (basti pensare che per la costruzione dell’orto sono serviti ben 2 episodi).Ernest svolge il suo ruolo di sempai in duplice chiave: all'interno dell'anime si presenta come insegnante, nel senso comune del termine, al tempo stesso però, svolge lo stesso ruolo, in senso metaforico, per il suo nucleo familiare. La famiglia, infatti, si trova su un'isola deserta. Ernest ,per evitare che regrediscano allo stato primitivo e che perdano la propria identità di esseri umani, organizza le loro giornate in maniera tale che rimangano a contatto con la civiltà, con la realtà e con ciò che sono. Così la mattina i bambini sono costretti a studiare, come se fossero a scuola, Anna si dedica all’orto e il padre alla caccia.
Il personaggio chiave per il moto dell’azione, invece, è la figlia Flo. La ragazzina un po’ maschiaccio, sempre allegra e combina guai non era presente nella storia originale, che invece parla di una famiglia di naufraghi composta da padre, madre e quattro figli maschi. Non è chiaro il motivo dell’inserimento di questo personaggio, alcuni ritengono che il regista si sia ispirato al telefilm americano The swiss family Robinson del 1975; dove la famiglia era composta da padre, madre, due figli e una bambina naufragata con loro; c’è chi dice, invece, che il personaggio sia stato inserito per far avvicinare all’anime anche il pubblico femminile. Al di là di questo, Flo diviene la protagonista del cartone animato, è lei la voce narrante ed è sempre lei, con i suoi guai o le sue idee, a dare inizio all’avventura in ogni puntata. Se poi Ernest incarna il maestro saggio, Flo diviene la portavoce dei sentimenti. La bambina, infatti, si dimostrerà la più forte della famiglia tanto da consolarli e fargli forza nei momenti più difficili,e sarà l’unica a superare il muro di indisponenza del marinaio Morton, naufragato nell’isola un anno dopo di loro. Inoltre la piccola Robinson ha un forte rispetto per la natura tanto da insegnarci che non dovrebbe mai essere defraudata, bensì coltivata solo ai fini della sopravvivenza; non solo, Flo ci insegna anche che gli animali sono creature da amare e rispettare e che attività come la caccia sono strettamente finalizzata alla sopravvivenza.
Gli altri personaggi sono psicologicamente molto caratterizzati: la madre Anna è molto paurosa, ma riesce a diventare coraggiosa nel momento del pericolo; il fratello più grande, Franz, è il classico adolescente che non sa ancora cosa vuole dalla vita, con il sogno della musica e un amore appena sbocciato; ed il fratellino più piccolo Jack che piange se lontano dalla mamma, ma pronto a giocare con tutti soprattutto con il suo animaletto Mercr.
All’interno della storia c’è però anche un altro personaggio sempre in primo piano, ma meno individuabile rispetto agli altri: la natura. Per tradizione animista la natura ha per i giapponesi un valore sacro, tanto da essere rappresentata in quasi tutti gli anime; quando non è la protagonista viene contrapposta alla tecnologia. In questa serie la natura ha doppia valenza: sia negativa che positiva. L’isola, infatti, è per la famiglia Robinson un paradiso terreste, con la sua natura vulcanica è molto fertile e permette la crescita di piante da frutto e di piccoli orticelli. Al tempo stesso i lupi, le tempeste ed il vulcano minacciano i naufraghi, che saranno costretti poi a lasciare l’isola con una zattera sperando di raggiungere l’Australia. Eppure non è per questa parte violenta che Flo e gli altri arrivano ad odiare l’isola che li ha salvati. L’insofferenza infatti nasce per la mancanza della civiltà, per la solitudine e per tutte quelle piccole cose che facilitano la vita, testimoniando così l’allontanamento dell’essere umano verso colei che da sempre dona la vita.
Dal punto di vista prettamente tecnico la serie Flo, la piccola Robinson è stata realizzata in animazione limitata, ovvero un'animazione di tipo più economico, con meno disegni e meno dettagli, in cui le pose intermedie del movimento dei personaggi sono limitate. C’è da dire che nonostante questo i fondali,selvaggi e naturali, e il chara dei personaggi sono molto ben curati, a differenza di altri studi d’animazione come la Hanna & Barbera famosa proprio per i fondali approssimativi e la loro becera ripetizione.
Bibliografia: www.wikipedia.it, www.cartonionline.com,www.animeclik.it.
venerdì 11 giugno 2010
La rivoluzione del lungometraggio animato: Biancaneve e i sette nani
Walt Disney, negli anni trenta, dà una svolta decisiva al mondo dell'animazione, dando alla luce il primo cortometraggio animato sonoro della storia. Dopo di ché, decise di recarsi in Europa per studiare il cinema muto e l'animazione locale. In alcuni cinema di Parigi si rese conto che i suoi cortometraggi venivano proiettati senza interruzione; così ,Walt, ebbe un'intuizione geniale: l’animazione poteva diventare un vero e proprio film a colori e con tanto di sonoro. Tornato in America, mobilitò le sue energie umane, professionali ed economiche, per concretizzare questa nuova grande scommessa, che iniziò nel 1934. I primi problemi non tardarono però ad arrivare; in fase lavorativa emerse subito il problema di come poter intrattenere un pubblico disabituato ad assistere ad uno spettacolo d'animazione che durasse un'ora e mezzo. Pertanto parve necessario che i personaggi della storia fossero dotati di un profilo realistico -non caricaturale-, capace così di trasmettere un forte potere di identificazione e partecipazione alle vicende narrate. Un ulteriore difficoltà si presentò sul piano tecnico - narrativo, tra le quali c'era una complicazione fondamentale, cioè il fatto di rendere il movimento umano più fluido e realistico possibile. Nel fare ciò, sperimentò con i suoi collaboratori Garity e Don Graham, la tecnica del Multiplane (ovvero dei multi piani, per dare l'effetto della tridimensionalità) e la tecnica Rotoscope (che consiste nel fotografare movimenti eseguiti dal vivo da attori e attrici, nel modo della pantomima, che poi vengono ricalcate dai disegnatori). Per perfezionare queste tecniche vennero messe a punto dei cortometraggi realizzati dallo stesso Walt Disney, sullo stile delle "Silly Sinphony" (cartoni animati umoristici e di intrattenimento, aventi come protagonisti prevalentemente animali, ma anche caricature di figure umane). A questo punto non rimaneva che scegliere la storia da rappresentare. Walt voleva una favola universale, conosciuta da grandi e piccoli, una storia che potesse divertire, ma allo stesso tempo che riuscisse a farsi specchio della realtà di quel momento (nrd. Crollo di Wall Street) e che potesse trasmettere insegnamenti validi. Dopo varie proposte, venne scelta la favola dei fratelli Grimm "Biancaneve e i sette nani", ovviamente censurata negli aspetti più crudi. La storia rimane comunque molto fedele al racconto tranne per alcune differenze:
• La regina si nutre del cuore che crede di Biancaneve portatole dal cacciatore;
• La regina usa altri due trucchi prima della mela avvelenata, ma con scarso risultato; Biancaneve si sveglia perché la bara cade e lo sbalzo le fa uscire il boccone di mela avvelenata dalla bocca;
• La regina morirà dopo essere stata costretta a calzare delle pantofole di ferro roventi e a ballarci.
Biancaneve e i sette nani fu proiettato per la prima volta il 21 dicembre 1937 ed ebbe un successo clamoroso, distribuito dalla RKO incassò più di 8 milioni di dollari. Viene considerato il capostipite dei lungometraggi animati e di molte tecniche di animazione, che sono state riprese dai concorrenti solo molti anni più tardi (si pensi che il Giappone, noto produttore di cartoni animati, è riuscito a introdurre il sincronismo tra dialoghi e movimento delle labbra solo negli anni '80). Da quel momento in poi la Disney ebbe una rapida ascesa. Il lungometraggio, dopo una dedica dello stesso Walt ai suoi collaboratori, si apre con la presentazione della storia tramite un libro (nella prima versione non c’era un narratore che lo leggeva), tecnica che Disney utilizzerà per altri lungometraggi , poi con una carrellata entriamo nella storia. L’azione si svolge principalmente in tre spazi: il castello, la foresta e la casa dei sette nani (c’è poi anche la miniera dove lavorano i nani, ma rimane un luogo marginale). I luoghi risentono molto del personaggio e dei suoi stati d’animo per cui la tonalità di colore e lo stile cambia spesso. Prendiamo come esempio il castello: soleggiato quando in scena c’è Biancaneve, tetro e oscuro con la presenza della regina; oppure la foresta, quando la protagonista ha paura si nota una tonalità cromatica tendente al nero, blu e viola con alberi spaventosi e lugubri, mentre quando si rende che non c’è niente di spaventoso intorno a lei tutto cambia. Il tempo della storia si presenta lineare e semplice, con la presenza di un prologo che introduce la storia, il tutto per aiutare i bambini a seguire meglio l’intreccio. Lo stile di ripresa e lo studio sui personaggi, con stilemmi da cinema dal vero, ci fa dimenticare di essere di fronte a un lungometraggio d’animazione. I personaggi, infatti, vengono trattati alla stregua di attori, non sono più macchiette caricaturali, come nei precedenti cartoon, ma diventano vivi, ricchi di sentimenti ‘umani’ e sinceri; perciò, essi creano e vivono autentici ‘drammi’ che avvincono e commuovono. Si guardi, tra i mille esempi che potremmo fare, il volto di Biancaneve quando il cacciatore le rivela la folle perfidia della matrigna: poche attrici di carne saprebbero esprimere con tanta autenticità lo spavento e lo smarrimento. Per non parlare delle sequenze: il film non ha mai immagini statiche, ma inquadrature e virtuosismi immaginari, come la carrellata che ci guida lo sguardo da Biancaneve che si trova sul terrazzo, fino alla Regina che la spia dalla finestra. Interamente creato con mezzi artigianali (disegni a mano) e con gli sfondi realizzati con la tecnica dell'acquerello, la macchina da presa si muove, all’interno di questi quadri, come se fosse un personaggio esterno che segue la storia, la m.d.p. rappresenta un narratore invisibile, talvolta però riflette lo stato d’animo dei personaggi (come le riprese rapide nella foresta per dare suspance). I personaggi sono vivi, come dotati di una vita propria e indipendente, ci trasmettono pathos, sentimento, sono capaci di farci commuovere; tuttavia la loro caratterizzazione risulta stereotipata: Biancaneve è la classica principessa da salvare buona e altruista, schiavizzata dalla matrigna, innamorata di un principe e sempre seguita da animaletti dolci, vestita con colori sgargianti; il principe è l’eroe, ma in questo caso incarna il deus ex macchina, in quanto non ha un vero e proprio ruolo per tutto il cartone, eccetto che nel risveglio di Biancaneve. La regina è la classica matrigna che vive un conflitto di inferiorità con la figliastra, malefica pronta a tutto “per essere la più bella del reame”,ovviamente vestita di nero e seguita da corvi, topi e avvoltoi ( in questo lungometraggio si fondono la figura della strega e della matrigna); i sette nani sono dei personaggi un po’ ambigui, anche nel loro comportamento, all’inizio ostili poi altruisti, tanto da diventare i veri eroi della storia, per questo sono bruttini, ma puntano tutto sulle gag destando simpatia, ogni nano è la personificazione del proprio nome; infine lo specchio magico e il cacciatore rappresentano il moto dell’azione. Per quanto scontati i personaggi dovevano incarnare la regola del kalos kai agatos “per cui il bene è sempre preferibile al male, e quindi quest'ultimo deve essere descritto come abominevole e terribile” (Walt Disney). La musica nel lungometraggio ha sia scopo narrativo e descrittivo, accompagnando le immagini e seguendo il climax ora ascendente ora discendente della storia; che uno scopo formale, come nel musical i personaggi esprimono i loro sentimenti attraverso le canzoni (il cartone vinse l’oscar per la colonna sonora).
La storia di Biancaneve e i sette nani è un capolavoro che viene raccontata attraverso scene e sequenze fluide, che sembrano danzare lungo un ritmo sempre più coinvolgente, dall'inizio fino alla fine. Il neo che lo spettatore di oggi può individuare è il ricorso ad atmosfere cupe, atmosfere che sembrano poco adatte ai bambini. La pronta risposta si può però trovare contestualizzando la pellicola nel suo periodo storico: era il 1937 e dall'Europa cominciavano a spirare venti di guerra, magistralmente “interpretati” dalla foresta magica a inizio del film, e ancora vi erano gli strascichi della crisi economica del 1929 . Con il crollo di Wall Street, infatti, inizia per l’America il periodo della grande depressione, le persone perdono fiducia nel sistema americano e nelle sue ideologie sentendo il bisogno di credere in qualcosa, ma anche di divertirsi e svagarsi. Il cinema, come spettacolo, riesce a colmare questi bisogni producendo sia film di puro spettacolo, sia film in grado di dare una spinta alla nazione; fanno successo film di puro divertimento come il musical o la commedia, ma anche film che incarnano la depressione come i noir, o come i western che cercano di dare nuovi ideali. Anche l’animazione, e soprattutto Walt Disney, si fa carico di quei bisogni, cercando di dare svago con i suoi cartoon, ma anche cercando di infondere ideali e valori ai bambini, che incarnano la nuova generazione. Tutto il lungometraggio è pieno di messaggi nascosti, di valori e principi americani che Walt suggerisce ai bambini in questo periodo di cambiamento drastico della nazione. Abbiamo un happy end dovuto alla collaborazione dei nani, degli animali e del principe, segno che l’amicizia è una grande forza; inoltre si vuol dare speranza, perché sì, possono succedere molte cose brutte, ma con l’impegno possono essere superate. C’è il valore del matrimonio, dell’amicizia e della cooperazione, ma anche un ammonimento: il classico “non fidarsi mai degli estranei che offrono i dolci”, in questo caso la mela. Non è presente, stranamente, nel film d’animazione un vero e proprio percorso iniziatico, tipico dei successivi cartoon Disney, infatti, Biancaneve non supera delle vere e proprie prove, ma viene costantemente salvata dal cacciatore, dai nani e dal principe.
Bibliografia: Biancaneve e i sette nani, di Helga Corpino; Il primo bacio d'amore non si scorda più, di Glauco Almonte; Biancaneve e i sette nani, di Matteo Masi; Biancaneve e i sette nani, di Giuliano Corà; www.wikipedia.it.
Filmografia: Biancaneve e i sette nani, USA, 1937. Produttore: Walt Disney; Regia: David Hand, Soggetto: Jacob e Wilhelm Grimm, Durata: 83 min, Distribuzione: RKO Radio Pictures.
• La regina si nutre del cuore che crede di Biancaneve portatole dal cacciatore;
• La regina usa altri due trucchi prima della mela avvelenata, ma con scarso risultato; Biancaneve si sveglia perché la bara cade e lo sbalzo le fa uscire il boccone di mela avvelenata dalla bocca;
• La regina morirà dopo essere stata costretta a calzare delle pantofole di ferro roventi e a ballarci.
Biancaneve e i sette nani fu proiettato per la prima volta il 21 dicembre 1937 ed ebbe un successo clamoroso, distribuito dalla RKO incassò più di 8 milioni di dollari. Viene considerato il capostipite dei lungometraggi animati e di molte tecniche di animazione, che sono state riprese dai concorrenti solo molti anni più tardi (si pensi che il Giappone, noto produttore di cartoni animati, è riuscito a introdurre il sincronismo tra dialoghi e movimento delle labbra solo negli anni '80). Da quel momento in poi la Disney ebbe una rapida ascesa. Il lungometraggio, dopo una dedica dello stesso Walt ai suoi collaboratori, si apre con la presentazione della storia tramite un libro (nella prima versione non c’era un narratore che lo leggeva), tecnica che Disney utilizzerà per altri lungometraggi , poi con una carrellata entriamo nella storia. L’azione si svolge principalmente in tre spazi: il castello, la foresta e la casa dei sette nani (c’è poi anche la miniera dove lavorano i nani, ma rimane un luogo marginale). I luoghi risentono molto del personaggio e dei suoi stati d’animo per cui la tonalità di colore e lo stile cambia spesso. Prendiamo come esempio il castello: soleggiato quando in scena c’è Biancaneve, tetro e oscuro con la presenza della regina; oppure la foresta, quando la protagonista ha paura si nota una tonalità cromatica tendente al nero, blu e viola con alberi spaventosi e lugubri, mentre quando si rende che non c’è niente di spaventoso intorno a lei tutto cambia. Il tempo della storia si presenta lineare e semplice, con la presenza di un prologo che introduce la storia, il tutto per aiutare i bambini a seguire meglio l’intreccio. Lo stile di ripresa e lo studio sui personaggi, con stilemmi da cinema dal vero, ci fa dimenticare di essere di fronte a un lungometraggio d’animazione. I personaggi, infatti, vengono trattati alla stregua di attori, non sono più macchiette caricaturali, come nei precedenti cartoon, ma diventano vivi, ricchi di sentimenti ‘umani’ e sinceri; perciò, essi creano e vivono autentici ‘drammi’ che avvincono e commuovono. Si guardi, tra i mille esempi che potremmo fare, il volto di Biancaneve quando il cacciatore le rivela la folle perfidia della matrigna: poche attrici di carne saprebbero esprimere con tanta autenticità lo spavento e lo smarrimento. Per non parlare delle sequenze: il film non ha mai immagini statiche, ma inquadrature e virtuosismi immaginari, come la carrellata che ci guida lo sguardo da Biancaneve che si trova sul terrazzo, fino alla Regina che la spia dalla finestra. Interamente creato con mezzi artigianali (disegni a mano) e con gli sfondi realizzati con la tecnica dell'acquerello, la macchina da presa si muove, all’interno di questi quadri, come se fosse un personaggio esterno che segue la storia, la m.d.p. rappresenta un narratore invisibile, talvolta però riflette lo stato d’animo dei personaggi (come le riprese rapide nella foresta per dare suspance). I personaggi sono vivi, come dotati di una vita propria e indipendente, ci trasmettono pathos, sentimento, sono capaci di farci commuovere; tuttavia la loro caratterizzazione risulta stereotipata: Biancaneve è la classica principessa da salvare buona e altruista, schiavizzata dalla matrigna, innamorata di un principe e sempre seguita da animaletti dolci, vestita con colori sgargianti; il principe è l’eroe, ma in questo caso incarna il deus ex macchina, in quanto non ha un vero e proprio ruolo per tutto il cartone, eccetto che nel risveglio di Biancaneve. La regina è la classica matrigna che vive un conflitto di inferiorità con la figliastra, malefica pronta a tutto “per essere la più bella del reame”,ovviamente vestita di nero e seguita da corvi, topi e avvoltoi ( in questo lungometraggio si fondono la figura della strega e della matrigna); i sette nani sono dei personaggi un po’ ambigui, anche nel loro comportamento, all’inizio ostili poi altruisti, tanto da diventare i veri eroi della storia, per questo sono bruttini, ma puntano tutto sulle gag destando simpatia, ogni nano è la personificazione del proprio nome; infine lo specchio magico e il cacciatore rappresentano il moto dell’azione. Per quanto scontati i personaggi dovevano incarnare la regola del kalos kai agatos “per cui il bene è sempre preferibile al male, e quindi quest'ultimo deve essere descritto come abominevole e terribile” (Walt Disney). La musica nel lungometraggio ha sia scopo narrativo e descrittivo, accompagnando le immagini e seguendo il climax ora ascendente ora discendente della storia; che uno scopo formale, come nel musical i personaggi esprimono i loro sentimenti attraverso le canzoni (il cartone vinse l’oscar per la colonna sonora).
La storia di Biancaneve e i sette nani è un capolavoro che viene raccontata attraverso scene e sequenze fluide, che sembrano danzare lungo un ritmo sempre più coinvolgente, dall'inizio fino alla fine. Il neo che lo spettatore di oggi può individuare è il ricorso ad atmosfere cupe, atmosfere che sembrano poco adatte ai bambini. La pronta risposta si può però trovare contestualizzando la pellicola nel suo periodo storico: era il 1937 e dall'Europa cominciavano a spirare venti di guerra, magistralmente “interpretati” dalla foresta magica a inizio del film, e ancora vi erano gli strascichi della crisi economica del 1929 . Con il crollo di Wall Street, infatti, inizia per l’America il periodo della grande depressione, le persone perdono fiducia nel sistema americano e nelle sue ideologie sentendo il bisogno di credere in qualcosa, ma anche di divertirsi e svagarsi. Il cinema, come spettacolo, riesce a colmare questi bisogni producendo sia film di puro spettacolo, sia film in grado di dare una spinta alla nazione; fanno successo film di puro divertimento come il musical o la commedia, ma anche film che incarnano la depressione come i noir, o come i western che cercano di dare nuovi ideali. Anche l’animazione, e soprattutto Walt Disney, si fa carico di quei bisogni, cercando di dare svago con i suoi cartoon, ma anche cercando di infondere ideali e valori ai bambini, che incarnano la nuova generazione. Tutto il lungometraggio è pieno di messaggi nascosti, di valori e principi americani che Walt suggerisce ai bambini in questo periodo di cambiamento drastico della nazione. Abbiamo un happy end dovuto alla collaborazione dei nani, degli animali e del principe, segno che l’amicizia è una grande forza; inoltre si vuol dare speranza, perché sì, possono succedere molte cose brutte, ma con l’impegno possono essere superate. C’è il valore del matrimonio, dell’amicizia e della cooperazione, ma anche un ammonimento: il classico “non fidarsi mai degli estranei che offrono i dolci”, in questo caso la mela. Non è presente, stranamente, nel film d’animazione un vero e proprio percorso iniziatico, tipico dei successivi cartoon Disney, infatti, Biancaneve non supera delle vere e proprie prove, ma viene costantemente salvata dal cacciatore, dai nani e dal principe.
Bibliografia: Biancaneve e i sette nani, di Helga Corpino; Il primo bacio d'amore non si scorda più, di Glauco Almonte; Biancaneve e i sette nani, di Matteo Masi; Biancaneve e i sette nani, di Giuliano Corà; www.wikipedia.it.
Filmografia: Biancaneve e i sette nani, USA, 1937. Produttore: Walt Disney; Regia: David Hand, Soggetto: Jacob e Wilhelm Grimm, Durata: 83 min, Distribuzione: RKO Radio Pictures.
mercoledì 19 maggio 2010
L'anti-eroe diventa eroe-protagonista: Lupin III
Il 24 ottobre 1971 sul palinsesto televisivo nipponico fa la sua prima comparsa un'anime destinato a divenire un cult dell'animazione : Lupin III. Prima di iniziare ad analizzare questa serie animata, vorrei chiarire le definizioni di antagonista/protagonista e di eroe/anti-eroe.
Nel pensiero comune, infatti, si è instaurata la falsa convenzione che il binomio eroe/protagonista e anti-eroe/antagonista combacino perfettamente in ogni opera letteraria, cinematografica o televisiva. Ma questo non è sempre vero. L'antagonista, in una storia, può essere diegetico, extradiegetico o entrambi, non solo, può coincidere talvolta con l'eroe oppure con l 'anti-eroe. Per farvi capire meglio vi farò qualche esempio di antagonista nel film Batman e Batman- il ritorno di Tim Burton. Nel film Batman del 1989 il nemico dell’uomo pipistrello è Joker. In questo caso possiamo parlare di antagonista anti-eroe (in quanto Joker va effettivamente contro Batman) e antagonista diegetico (in quanto Joker è all’interno della scena ed è palpabile e reale). Nel film Batman- il ritorno del 1992, l’antagonista non è così semplice da individuare come nel primo caso. A prima vista potremmo dire che questo ruolo sia rappresentato da Pinguino. Ma è davvero cosi? Pinguino non è pazzo e cattivo per natura come lo era Joker, lo è diventato a causa del rifiuto, dell’odio e dell’emarginazione della società nei suoi confronti. In questo secondo caso il vero antagonista è la società di Gotham che non fa altro che produrre criminali, ed è quindi extra diegetico ovvero non percepibile dai 5 sensi. Il povero Pinguino non è che il risultato dell’odio, divenendo così solo anti-eroe e non l’antagonista di Batman. Ma torniamo a Lupin III. Nell’anime il senso comune viene completamente rovesciato e Lupin l’anti-eroe diviene il protagonista, mentre il povero ispettore Zenigata diviene l’antagonista-eroe. Un gran paradosso! Ma non è ancora finita, in Lupin, infatti, c’è una seconda analisi da affrontare. L’immagine del ladro gentiluomo non nasce con l’anime, ma si sviluppa in corso d’opera.
La prima serie, riconoscibile dalla giacca verde di Lupin, può essere divisa in due parti: la prima comprende le prime 6 puntate, la seconda le restanti 16. Non a caso il cambiamento coincide con l’abbandono del regista Masaaki Osumi e con l’assunzione di Hayao Miyazaki e Isao Takahata. Le prime sei puntate riprendevano molto il manga di Monkey Punch ( dal quale è tratto l’anime), ed erano quindi molti violente, cariche di allusioni sessuali e incentrate non tanto sull’ umorismo quanto su storie complesse. Il moderno Lupin riusciva, grazie alla sua astuzia e al suo talento nei travestimenti, a portare a termine i colpi più sensazionali e se qualcosa andava storto non esitava ad uccidere. Grande attenzione è stata data ai dettagli delle automobili, alle armi e agli oggetti di valore. Lupin era sì il protagonista, ma rappresentava decisamente l’antieroe dell’anime. Osumi e i suoi sceneggiatori avevano impostato la serie fino al 12° episodio, e alcuni episodi erano già entrati in fase di disegno. Quando Miyazaki e Takahata vengono chiamati per cambiare la serie, si trovano costretti a eliminare completamente circa 5 episodi, provocando una diaspora tra gli sceneggiatori. I due risistemano gli story-board a partire dal 6° episodio, intervenendo più sugli oggetti che sulla storia e i personaggi. Da simpatizzante marxista, Miyazaki non riesce a vedere Lupin alla guida della Mercedes Benz SSK del ’28 (posseduta anche da Hitler) così sostituisce l’auto con un’utilitari: la Citroen 2CV o la Fiat 500. Inoltre, da appassionato di volo e aerei non manca di inserire nelle puntate oggetti volanti di ogni genere. Dal 14° episodio si fa sempre più visibile l’intervento di Hayao. Il regista riesce a imprimere maggior grazia e un umorismo più fine, sublimando l’erotismo e stemperando la violenza del manga originario: il suo Lupin usa maggiormente l’astuzia e sempre meno le armi. Il protagonista perde, così, il suo aspetto anti-eroe negativo, divenendo un anti-eroe da ammirare.
La seconda serie, riconoscibile dalla giacca rossa di Lupin, porta avanti la strada aperta da Miyazaki. I registi, nella seconda serie sono molti e cambiano di puntata in puntata. Le storie sono prevalentemente caratterizzate da toni di commedia, d'azione e da un ritmo vivace non mancano tuttavia parentesi drammatiche, talvolta anche molto amare. Rispetto alla prima serie , c’è uno studio più approfondito sulla psicologia dei personaggi ed i loro ruoli sono fissati in modo più stabile, scivolando però talvolta nello stereotipo: Lupin è caratterizzato come una simpatica canaglia un po' buffona, che sa tirare fuori al momento adatto risorse imprevedibili, ma viene regolarmente ingannato da una Fujiko spregiudicata e calcolatrice; Jigen, di cui viene accentuato il carattere scontroso e riservato, e Goemon, saldamente ancorato all'antica morale dei samurai; Zenigata è presentato come goffo e ingenuo, puntualmente beffato da Lupin. Vengono inoltre più volte sottolineate le capacità fuori dal comune dei personaggi (l'abilità nei travestimenti di Lupin, la mira infallibile di Jigen, la facoltà di Goemon di tagliare ogni cosa con la sua spada), che, insieme al ricorso a elaborati stratagemmi e tecniche bizzarre, rendono spesso le loro imprese poco verosimili, ma al tempo stesso molto amate. Gli episodi sono di volta in volta ambientati in diversi paesi del mondo, e abbondano caricature di personaggi famosi, parodie e riferimenti storici, mitologici, letterali, teatrali, cinematografici e così via. Lupin, nonostante la sua infallibile maestria nel rubare, diviene sempre più simile a noi e il fatto che sia un ladro passa decisamente in secondo piano; il salto da anti-eroe a eroe ormai è avvenuto.
La terza serie, riconoscibile dalla giacca rosa di Lupin, compie una svolta controcorrente. L’anime torna a riprendere spunti dal manga, senza, però, riprenderne le intere vicende. Cambia anche lo stile che diventa più caricaturale e grottesco. Il carattere dei personaggi, però, non viene modificato. Purtroppo, dopo un ottimo avvio, la serie proseguirà in modo discontinuo, registrando soprattutto nella seconda metà numerose cadute qualitative sia nelle sceneggiature che nelle animazioni. In Italia questa serie è stata colpita in maniera massiccia da una censura diretta ad eliminare anche il più piccolo riferimento sessuale (ed in generale ciò che lo spietato occhio del censore ha giudicato degno di taglio). Il risultato è stato che alcuni episodi sono divenuti semplicemente incomprensibili .
Bibliografia: A. Bencivenni, Hayao Miyazaki. Il dio dell’anime, Le mani, Genova, 2003. http://www.droni.it/enrico/lupin/. http://www.lupinencyclopedia.com/. Sara Galletti, Il ruolo dell'antagonista nel cinema di Tim Burton, Tesi di laurea arti e scienze dello spettacolo La Sapienza, Roma, 2010
Nel pensiero comune, infatti, si è instaurata la falsa convenzione che il binomio eroe/protagonista e anti-eroe/antagonista combacino perfettamente in ogni opera letteraria, cinematografica o televisiva. Ma questo non è sempre vero. L'antagonista, in una storia, può essere diegetico, extradiegetico o entrambi, non solo, può coincidere talvolta con l'eroe oppure con l 'anti-eroe. Per farvi capire meglio vi farò qualche esempio di antagonista nel film Batman e Batman- il ritorno di Tim Burton. Nel film Batman del 1989 il nemico dell’uomo pipistrello è Joker. In questo caso possiamo parlare di antagonista anti-eroe (in quanto Joker va effettivamente contro Batman) e antagonista diegetico (in quanto Joker è all’interno della scena ed è palpabile e reale). Nel film Batman- il ritorno del 1992, l’antagonista non è così semplice da individuare come nel primo caso. A prima vista potremmo dire che questo ruolo sia rappresentato da Pinguino. Ma è davvero cosi? Pinguino non è pazzo e cattivo per natura come lo era Joker, lo è diventato a causa del rifiuto, dell’odio e dell’emarginazione della società nei suoi confronti. In questo secondo caso il vero antagonista è la società di Gotham che non fa altro che produrre criminali, ed è quindi extra diegetico ovvero non percepibile dai 5 sensi. Il povero Pinguino non è che il risultato dell’odio, divenendo così solo anti-eroe e non l’antagonista di Batman. Ma torniamo a Lupin III. Nell’anime il senso comune viene completamente rovesciato e Lupin l’anti-eroe diviene il protagonista, mentre il povero ispettore Zenigata diviene l’antagonista-eroe. Un gran paradosso! Ma non è ancora finita, in Lupin, infatti, c’è una seconda analisi da affrontare. L’immagine del ladro gentiluomo non nasce con l’anime, ma si sviluppa in corso d’opera.
La prima serie, riconoscibile dalla giacca verde di Lupin, può essere divisa in due parti: la prima comprende le prime 6 puntate, la seconda le restanti 16. Non a caso il cambiamento coincide con l’abbandono del regista Masaaki Osumi e con l’assunzione di Hayao Miyazaki e Isao Takahata. Le prime sei puntate riprendevano molto il manga di Monkey Punch ( dal quale è tratto l’anime), ed erano quindi molti violente, cariche di allusioni sessuali e incentrate non tanto sull’ umorismo quanto su storie complesse. Il moderno Lupin riusciva, grazie alla sua astuzia e al suo talento nei travestimenti, a portare a termine i colpi più sensazionali e se qualcosa andava storto non esitava ad uccidere. Grande attenzione è stata data ai dettagli delle automobili, alle armi e agli oggetti di valore. Lupin era sì il protagonista, ma rappresentava decisamente l’antieroe dell’anime. Osumi e i suoi sceneggiatori avevano impostato la serie fino al 12° episodio, e alcuni episodi erano già entrati in fase di disegno. Quando Miyazaki e Takahata vengono chiamati per cambiare la serie, si trovano costretti a eliminare completamente circa 5 episodi, provocando una diaspora tra gli sceneggiatori. I due risistemano gli story-board a partire dal 6° episodio, intervenendo più sugli oggetti che sulla storia e i personaggi. Da simpatizzante marxista, Miyazaki non riesce a vedere Lupin alla guida della Mercedes Benz SSK del ’28 (posseduta anche da Hitler) così sostituisce l’auto con un’utilitari: la Citroen 2CV o la Fiat 500. Inoltre, da appassionato di volo e aerei non manca di inserire nelle puntate oggetti volanti di ogni genere. Dal 14° episodio si fa sempre più visibile l’intervento di Hayao. Il regista riesce a imprimere maggior grazia e un umorismo più fine, sublimando l’erotismo e stemperando la violenza del manga originario: il suo Lupin usa maggiormente l’astuzia e sempre meno le armi. Il protagonista perde, così, il suo aspetto anti-eroe negativo, divenendo un anti-eroe da ammirare.
La seconda serie, riconoscibile dalla giacca rossa di Lupin, porta avanti la strada aperta da Miyazaki. I registi, nella seconda serie sono molti e cambiano di puntata in puntata. Le storie sono prevalentemente caratterizzate da toni di commedia, d'azione e da un ritmo vivace non mancano tuttavia parentesi drammatiche, talvolta anche molto amare. Rispetto alla prima serie , c’è uno studio più approfondito sulla psicologia dei personaggi ed i loro ruoli sono fissati in modo più stabile, scivolando però talvolta nello stereotipo: Lupin è caratterizzato come una simpatica canaglia un po' buffona, che sa tirare fuori al momento adatto risorse imprevedibili, ma viene regolarmente ingannato da una Fujiko spregiudicata e calcolatrice; Jigen, di cui viene accentuato il carattere scontroso e riservato, e Goemon, saldamente ancorato all'antica morale dei samurai; Zenigata è presentato come goffo e ingenuo, puntualmente beffato da Lupin. Vengono inoltre più volte sottolineate le capacità fuori dal comune dei personaggi (l'abilità nei travestimenti di Lupin, la mira infallibile di Jigen, la facoltà di Goemon di tagliare ogni cosa con la sua spada), che, insieme al ricorso a elaborati stratagemmi e tecniche bizzarre, rendono spesso le loro imprese poco verosimili, ma al tempo stesso molto amate. Gli episodi sono di volta in volta ambientati in diversi paesi del mondo, e abbondano caricature di personaggi famosi, parodie e riferimenti storici, mitologici, letterali, teatrali, cinematografici e così via. Lupin, nonostante la sua infallibile maestria nel rubare, diviene sempre più simile a noi e il fatto che sia un ladro passa decisamente in secondo piano; il salto da anti-eroe a eroe ormai è avvenuto.
La terza serie, riconoscibile dalla giacca rosa di Lupin, compie una svolta controcorrente. L’anime torna a riprendere spunti dal manga, senza, però, riprenderne le intere vicende. Cambia anche lo stile che diventa più caricaturale e grottesco. Il carattere dei personaggi, però, non viene modificato. Purtroppo, dopo un ottimo avvio, la serie proseguirà in modo discontinuo, registrando soprattutto nella seconda metà numerose cadute qualitative sia nelle sceneggiature che nelle animazioni. In Italia questa serie è stata colpita in maniera massiccia da una censura diretta ad eliminare anche il più piccolo riferimento sessuale (ed in generale ciò che lo spietato occhio del censore ha giudicato degno di taglio). Il risultato è stato che alcuni episodi sono divenuti semplicemente incomprensibili .
Bibliografia: A. Bencivenni, Hayao Miyazaki. Il dio dell’anime, Le mani, Genova, 2003. http://www.droni.it/enrico/lupin/. http://www.lupinencyclopedia.com/. Sara Galletti, Il ruolo dell'antagonista nel cinema di Tim Burton, Tesi di laurea arti e scienze dello spettacolo La Sapienza, Roma, 2010
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